CALCIO – D’Amico, il ricordo di Bruno Gentili

Sono passati solo venti giorni dalla morte di Vincenzo D’Amico. Il mondo del pallone è ancora scosso da una perdita così importante. D’Amico ha segnato un’epoca forse irripetibile ed era una bandiera della SS Lazio. Con i colori biancocelesti aveva vinto lo scudetto del 1973/1974. Poi, fuori dal campo, era diventato telecronista e commentatore.

Ne parliamo con uno dei più affermati giornalisti sportivi, Bruno Gentili, già vice-direttore di Rai Sport e radiocronista nella storica trasmissione “Tutto il calcio minuto per minuto“. Telecronista ufficiale, dal 2010 al 2012, delle partite della Nazionale Italiana, ha seguito, per la Rai, tanti Mondiali di calcio oltre a diverse edizioni dei Giochi Olimpici. Ha conosciuto sia il D’Amico calciatore che il D’Amico commentatore.

Bruno, qual è il tuo ricordo di D’Amico calciatore? Era veramente così forte sia in campo che nello spogliatoio?


Talmente forte che Maestrelli, per il suo debutto in A nel ’73, lo preferì al più navigato Manservisi intuendo in lui qualità non comuni, qualità che già l’allenatore precedente, l’argentino Juan Carlos Lorenzo, aveva esaltato quando Vincenzo giocava nelle giovanili della Lazio.
Già allora aveva una formidabile rapidità di pensiero, batteva sul tempo chiunque gli capitasse a tiro grazie ad un grande repertorio di finte e controfinte e, pur non essendo un fulmine, riusciva nello scatto breve a lasciarlo sul posto. Tutte caratteristiche che ha conservato nel tempo, mai snaturandosi.
Così è nato e così è rimasto.

Per Oddi, nella Lazio dello scudetto 73/74 D’Amico era il più piccolo a livello anagrafico ma il più grande come personalità. Che ricordi hai di quegli anni?


Il ricordo di uno spogliatoio di “sbandati e pazzi scatenati” che Tommaso Maestrelli seppe assemblare con pochi ma felici ritocchi e soprattutto con una grande forza d’animo dopo la promozione in B e il terzo posto-thrilling del 1973, a due soli punti dalla Juventus campione.
La lotta-scudetto decisa all’ultima giornata, tra non pochi sospetti: il gol di Cuccureddu in “beata solitudine” contro la Roma di Anzalone, il gol velenoso di Damiani al San Paolo che spense i sogni di gloria dei biancocelesti.
Dopo quella delusione Maestrelli ebbe un merito indiscutibile, quello di rivitalizzare, rianimare una squadra che si sentiva battuta non sul campo ma dai “poteri forti”. Ricaricò lo spogliatoio e ripartendo dalla difesa fece della Lazio un capolavoro.
Nessuno può dimenticare i suoi “riferimenti”: Pulici in porta (che lo stesso Maestrelli prelevò dal Novara), Oddi il “mastino”, Wilson battitore libero in giacca e cravatta , Re Cecconi e Nanni mediani incursori, Frustalupi in cattedra, Martini, Petrelli e Garlaschelli a imperversare sulle fasce e quel geniaccio di D’Amico, a soli 19 anni, a sostegno di Long John Chinaglia, capocannoniere con 24 gol. Squadra che avrebbe potuto fare molta strada anche nella Coppa dei Campioni se non fosse incappata nella squalifica per gli incidenti contro l’Ipswich.
Vincenzo si è sempre sentito sicuro del fatto suo, non aveva paura di nulla, entrava in campo quasi fischiettando, non ha mai avvertito la cosiddetta ansia da prestazione e questo gli ha sempre permesso di giocare in tranquillità. Lui interpretava il calcio come gioco del pallone, come se giocasse in strada, era allergico alle “gabbie”, agli schemi, la collocazione in campo la trovava con il fiuto seguendo lo sviluppo della partita, il flusso del gioco.
Certo, qualche sacrificio in più avrebbe potuto farlo, rincorrere magari l’avversario, “pestargli i piedi” – come gli suggeriva maliziosamente Chinaglia – ma era fatto così e a Maestrelli e ai tifosi bastava e avanzava.

Per Giordano, solo Maradona era più grande di D’Amico. La sua classe era di un altro pianeta. Tu hai vissuto in pieno il periodo degli anni ‘80, con il Napoli che conquistava scudetti e la Lazio in bilico tra serie B e serie C. Che ricordi hai di quel periodo?


Ogni epoca ha avuto, ha i suoi campioni, i paragoni tra “grandi” non reggono. Giordano ha giocato sia con Maradona che con D’Amico, ma l’unica somiglianza che potrebbe accomunarli è forse nello “stretto”: tutti e due sapevano destreggiarsi in un fazzoletto di terreno ma per il resto lo stesso Vincenzo si sarebbe fatto una risata pur gonfiandosi il petto per l’accostamento…
Resta il rammarico di non averlo mai visto con la maglia della Nazionale, D’Amico. Bearzot lo chiamò soltanto nel 1980 in vista di una doppia amichevole con Lussemburgo e Danimarca. Lo provò in allenamento a destra con Bruno Conti sulla fascia opposta. Vincenzo, che nella Lazio giocava a sinistra, mostrò una certa insofferenza, non gradiva quel ruolo e Bearzot, già sufficientemente coperto in quella zona da Causio e Claudio Sala, non lo chiamò più.

D’Amico ha collaborato per tanti anni con Rai Sport. Il pubblico televisivo ne apprezzava la qualità degli interventi, la moderazione e la competenza. Come ricordi D’Amico commentatore?


Vincenzo è stato un prezioso collaboratore, bravo in studio, bravo come “seconda voce” del telecronista, compito che gradiva particolarmente perchè gli faceva rivivere le emozioni del campo. Interventi secchi, puntuali, sapeva cogliere l’attimo, entrava nelle brevi pause del telecronista mettendo a frutto tutto il suo bagaglio tecnico. Più riflessivo e gigione invece in studio dove faceva sfoggio della sua ironia e della sua capacità di stemperare le situazioni più imbarazzanti con le sue battute ad effetto . Si divertiva e divertiva. Rendeva il calcio più leggero.
Ma Vincenzo, fuori orario di lavoro, è stato soprattutto un grande compagno. Amava la buona tavola, amava ricordare i bei tempi senza troppa nostalgia, con disincanto. Una persona davvero piacevole, gioviale. Non l’ho visto una sola volta scuro in volto, scherzava al telefono persino negli ultimi giorni.

Il calcio di D’Amico è un calcio che non esiste più. Le bandiere ormai sono tutte ammainate a parte qualche rara eccezione. D’Amico, nel 1980, partì per un anno e andò a giocare nel Torino, solo ed esclusivamente per salvare i conti della società. Tornò a Roma al termine della stagione, accettando di giocare la serie B. Oggi tanti giocatori preferiscono giocare anche in campionati mediocri pur di avere un ingaggio stellare. Tornerà più il calcio di una volta, il calcio di campioni come D’Amico?

Quel calcio non tornerà mai più e dovremo anzi rassegnarci alle nuove leggi di mercato. Comandano la Premier League (già speso più di un miliardo tra acquisti e riscatti contro i 360 del nostro campionato) e la Saudi Pro League, non più ormai torneo periferico ma formidabile veicolo di politica estera attraverso Ronaldo, Benzema, Milinkovic, Brozovic, Firmino, etc.
I vari Maldini, Totti, Del Piero, Zanetti, lo stesso D’Amico appartengono ad un’altra epoca, e forse anche loro (magari con l’eccezione di Gigi Riva, grande esempio di vero di attaccamento alla terra) difficilmente avrebbero detto no alle offerte da capogiro dei nuovi Paperoni del pallone.
All’Inter uno come Brozovic guadagnava 6,5 milioni netti, ora il suo nuovo club, l’All-Nassr di Riad, gliene garantirà 27! Uno schiaffo alla morale? Sì, sotto un certo aspetto, ma il calcio, come il cinema del resto, risponde alle leggi dell’economia capitalista, domanda e offerta: tanto più quel prodotto viene richiesto tanto cresce il suo valore. E in Italia, non essendoci più la liquidità di una volta ma soltanto parametri zero e plus-valenze, i giocatori vanno dove la moneta brilla.
E’ il mercato, bellezza…