Sperare nasce da un umanissimo bisogno di credere in qualcosa che ci possa tirare fuori da una brutta situazione. La speranza è dunque un sentimento umano solitamente positivo che ci aiuta a sconfiggere la paura, a proiettarci oltre le circostanze negative del momento. La speranza per essere tenuta viva ha però bisogno di essere alimentata. Tuttavia questo bisogno a volte può diventare una debolezza rendendoci più suggestionabili, più disponibili a credere pur in assenza di oggettivi elementi di ragionevolezza.
Proprio questo substrato emotivo può essere sfruttato da santoni, da dispensatori di catene di Sant’Antonio e fake news, venditori di rimedi che di scientifico hanno la verosimiglianza ma nessuna efficacia. Queste dinamiche sono già tristemente note in ambito sanitario, soprattutto in caso di pazienti con malattie oncologiche terminali. Laddove la medicina tradizionale non può che offrire cure tossiche o palliative, ecco gli avvoltoi con cure falsamente efficaci, indolori, cui certa stampa purtroppo presta persino il suo megafono.
L’attuale pandemia da COVID-19 non poteva certo sottrarsi ad un simile scenario. Anzi sembra l’ambientazione perfetta per i dispensatori di bufale: una popolazione spaventata e bloccata in casa da una malattia nuova, globale, con un certo tasso di letalità; assenza di un trattamento efficace per prevenirla e/o curarla; conoscenze scientifiche disponibili sull’argomento che sono ancora poche e non ben consolidate.
Ecco quindi che ogni giorno è un susseguirsi di titoli di giornale e di messaggi su Whatsapp su nuovi farmaci miracolosi e di vaccini pronti ad essere lanciati sul mercato.
Provo a fare un po’ di chiarezza con semplici domande e risposte basate su quello che le attuali evidenze scientifiche ci possono fornire.
QUALI SONO I SINTOMI PRINCIPALI DI UN’INFEZIONE DA COVID-19?
La classica triade sintomatologica è rappresentata da febbre, tosse e dispnea. La febbre è presente in oltre il 70% dei casi e rappresenta il segnale di una risposta infiammatoria attivata dal nostro organismo nei confronti di un patogeno. La dispnea è presente anch’essa in oltre il 70% dei casi, è la sensazione di respirazione affannosa, di fiato corto e frequente. Tosse, spesso secca non produttiva, presente in oltre il 50% dei casi ed è la conseguenza dell’irritazione determinata dal virus a carico delle nostre vie respiratorie. Diarrea e altri sintomi gastrointestinali sono piuttosti rari, in meno del 10% dei casi, più frequenti nei bambini. Molti pazienti affetti da COVID-19 hanno riferito l’insorgenza di congiuntivite, ageusia (ridotta percezione dei sapori) e anosmia (ridotta percezione degli odori). La percentuale di insorgenza di questi sintomi non è stata misurata con certezza.
QUANTO DURA IL PERIODO DI INCUBAZIONE?
Da 1 a 14 giorni. Più frequentemente 5-7 gg, in letteratura sono stati registrati casi aneddotici con oltre 20 gg di incubazione.
COME SI CURA UN’INFEZIONE DA COVID-19 E LE COMPLICANZE CHE ESSA DETERMINA?
Al momento non esiste una cura, ma solo terapia di supporto. Si guarisce quando il nostro organismo riesce ad organizzare una risposta anticorpale e infiammatoria in grado di debellare l’infezione. Per questo in soggetti fragili, con un sistema immunitario più compromesso l’infezione può risultare fatale.
COSA SI INTENDE PER TERAPIA DI SUPPORTO?
La malattia può presentare un quadro sintomatologico e di gravità variabili. La terapia di supporto, calibrata a seconda della gravità clinica, ha lo scopo di alleviare i sintomi.
Nel dettaglio la febbre viene curata con i comuni antipiretici (paracetamolo), l’insufficienza respiratoria se presente richiede l’ossigeno terapia. Il modo di somministrazione dell’ossigeno terapia è variabile a seconda della gravità dell’insufficienza respiratoria, passando dalla NIV (ventilazione non invasiva) alla IOT (intubazione oro-tracheale), in casi estremi può essere necessaria ECMO (Ossigenazione Extracorporea a Membrana).
GLI ANTIBIOTICI SERVONO? E PERCHÉ SONO PRESCRITTI?
L’infezione è di origine virale quindi gli antibiotici non hanno nessun effetto terapeutico diretto. Tuttavia sono spesso prescritti in molti pazienti per prevenire il rischio di eventuali sovra-infezioni batteriche. Inoltre all’esordio dei sintomi, in assenza di un tampone che accerti la positività per COVID-19, il quadro clinico è di difficile discriminazione da una polmonite batterica e quindi il medico potrebbe decidere comunque di intraprendere una terapia antibiotica.
ESISTONO DEI FARMACI “PERICOLOSI”, CHE POSSONO AUMENTARE IL RISCHIO DI COMPLICANZE IN CORSO DI INFEZIONE DA COVID-19?
Da giorni girano su giornali e Whatsapp informazioni allarmanti in merito ad alcuni FANS (anti-infiammatori antisteroidei) e anti-ipertensivi. L’EMA (Agenzia Europea del Farmaco) con un comunicato ufficiale ha smentito ogni eventuale controindicazione all’ assunzione di queste categorie di farmaci. La WHO (Organizzazione Mondiale di Sanità) ha invece controindicato l’utilizzo di corticosteroidi nella gestione di pazienti con infezione da COVID-19, poiché sembrerebbe prolungare i tempi di eliminazione del virus da parte dell’organismo. Tuttavia in quadri clinici particolarmente severi potrebbero essere impiegati a giudizio del rianimatore.
L’INFEZIONE DA COVID-19 IN DONNE IN GRAVIDANZA PUÒ DETERMINARE DANNI AL FETO?
Al momento sembrerebbe non esserci una trasmissione verticale, materno-fetale. Inoltre un’infezione contratta negli ultimi due-tre mesi di gravidanza non dovrebbe determinare complicanze al nascituro. Non è possibile trarre conclusioni su eventuali contagi avvenuti in fasi più precoci della gravidanza, in quanto le donne che hanno contratto infezione in fasi più precoci della gestazione devono ancora partorire (primi casi di COVID-19 in CINA dicembre 2019/gennaio 2020).
FARMACI SPERIMENTALI? QUALI SONO E A COSA SERVONO?
Sono attualmente in corso studi clinici per valutare l’efficacia di centinaia di farmaci nel ridurre la durata della malattia. Questi sono tutti farmaci già esistenti, utilizzati solitamente per il trattamento di altre patologie e che sulla base di ipotesi legate ai loro meccanismi d’azione potrebbero almeno parzialmente avere un’efficacia anche nella gestione di pazienti con COVID-19. Alcuni di questi farmaci inoltre sono risultati efficaci nell’inibire la replicazione del virus COVID-19 in colture di cellule e nel trattamento di infezioni da coronavirus (come quello della MERS) in modelli animali.
Tra le terapie ritenute più promettenti dalla comunità scientifica ci sono:
• il Remdesivir, un farmaco antivirale sperimentale studiato in precedenza per il trattamento dell’infezione da virus ebola;
• la combinazione lopinavir/ritonavir, già in commercio e utilizzata per il trattamento dell’HIV;
• la clorochina e l’idrossiclorochina, farmaci usati per il trattamento della malaria e per l’artrite reumatoide;
• il Tocilizumab, un anticorpo monoclonale con un’azione inibente sull’IL-6. L’interleuchina 6 è una citochina chiave nell’innescare l’attivazione della risposta infiammatoria. Razionale per l’impiego di questo farmaco: l’insufficienza respiratoria severa sarebbe legata più che all’infezione del virus all’eccessiva risposta infiammatoria dell’organismo nei confronti del virus. Pertanto lo spegnimento dell’eccessiva risposta infiammatoria potrebbe favorire un miglioramento del quadro clinico. Al momento sul farmaco ci sono degli studi clinici in corso sia in Cina che in Italia. Per inciso, non è stato “inventato” a Napoli. Semplicemente a Napoli, mutuando le prime esperienze cinesi, è stato utilizzato in alcuni pazienti, all’apparenza con una buona risposta terapeutica. Tuttavia si resta in attesa dei primi risultati dei trial clinici per trarre conclusioni più definitive.
Prendo spunto da questa vicenda per dire che è responsabilità di ogni medico e degli organi di informazione fornire comunicazioni non sensazionalistiche ma caute, circonstanziate ed equilibrate. Le prime esperienze favorevoli in un ristretto gruppo di pazienti, in assenza di un gruppo di controllo non dovrebbero far gridare subito alla nuova cura efficace nei confronti del COVID-19, semplicemente suggeriscono l’avviamento di una sperimentazione.
Ad esempio le prime esperienze sul campo suggerivano risultati molto positivi nei confronti della combinazione lopinavir/ritonavir. Tuttavia uno studio clinico appena pubblicato su una delle riviste scientifiche più autorevoli, il New England Journal of Medicine, non ha documentato l’efficacia di lopinavir/ritonavir su pazienti con gravi sintomi da COVID-19. Questo ci ricorda che il metodo scientifico prevede che un’ipotesi nata da esperienze aneddotiche venga testata in uno studio clinico di buona qualità e che i risultati ottenuti per essere credibili siano poi riproducibili in altri studi clinici e nella pratica clinica quotidiana.
IN CONCLUSIONE, IL FAMIGERATO FARMACO GIAPPONESE?
Innanzitutto doverosa premessa: è assai curioso per non dire sconsolante che una sperimentazione clinica in Italia si decida sulla base di un video di uno sconosciuto circolato su Whatsapp. Ad ogni modo fornisco una breve cronistoria sul farmaco. Il favipiravir (Avigan) è stato sviluppato, con brevetto del 1999, dalla Toyama Kagaku Kōgyō, una consociata della Fujifilm Holdings. Era stato progettato per il trattamento dell’influenza, tuttavia non venne commercializzato per il rischio di teratogenicità. Dal 2014 è stato approvato in Giappone come farmaco di riserva in caso di pandemie influenzali. Come menzionato sopra, anche il favipiravir rientra nel novero degli antivirali che sono stati testati in Cina in alcuni pazienti con Covid- 19. Al momento non è stato ancora pubblicato uno studio clinico che ne dimostri la sua efficacia. È rintracciabile su internet e sui motori scientifici di ricerca solo una bozza di un lavoro scientifico ad opera di un gruppo di ricercatori di Wuhan e Shenzen in fase di prepubblicazione (ecco il link per chi volesse approfondire https://www.medrxiv.org/…/10…/2020.03.17.20037432v1.full.pdf).
In sintesi lo studio è stato condotto in maniera non randomizzata su 236 pazienti affetti da COVID-19. I pazienti arruolati dovevano non presentare all’esordio sintomi severi e un intervallo di tempo tra esordio dei sintomi e inizio del trattamento non superiore a 12 giorni. I pazienti arruolati sono stati divisi in due bracci di trattamento: in un gruppo interferone alfa-1b e favipiravir, nell’altro interferone alfa-1b e lopinavir/ritonavir. I risultati dello studio hanno dimostrato che non c’era una differenza statisticamente significativa in favore di uno dei due bracci di trattamento in termini di recupero clinico al termine del trattamento. Semplicemente nel gruppo trattato con favipiravir, la percentuale di pazienti con recupero clinico entro 7 giorni dall’inizio del trattamento era leggermente più alta (71% vs 52%).
In conclusione, da revisore di numerose riviste scientifiche le evidenze disponibili sul ruolo favipiravir in pazienti con COVID-19 sono ancora poche (meno di 1!), metodologicamente di bassa qualità e non permettono di trarre alcuna conclusione definitiva. Pertanto in assenza di terapie validate per il trattamento di COVID-19, sono d’accordo a sperimentarlo in un trial clinico randomizzato sulla scorta di quanto fatto con altri anti-virali. Tuttavia siamo ben lungi dal definirlo il farmaco miracoloso per il trattamento di questa pandemia.
* Fabrizio Presicce è dirigente di Urologia all’Ospedale San Filippo Neri di Roma