Roma ha sempre avuto un rapporto molto stretto con Gioachino Rossini. E’ agli annali la rappresentazione al Teatro Argentina del 1816 del Barbiere di Siviglia e, l’anno dopo, al Teatro Valle della struggente Cenerentola ossia La bontà in trionfo.
Dopo il grande successo del 2016 ritorna, al Teatro Costanzi, dall’8 al 13 giugno, la Cenerentola firmata da Emma Dante, una delle migliori registe contemporanee.
L’opera di Rossini emerge per eleganza e raffinatezza. La regista, pur aderendo scrupolosamente al libretto di Jacopo Ferretti, ha saputo rinnovare la Cenerentola dandone una rilettura originale e, per certi versi, inedita.

La scenografia, curata da Carmine Maringola, e i costumi di Vanessa Sannico sono chiaramente ispirati al Surrealismo Pop, movimento artistico underground che abbina, tramite i fumetti, i tatuaggi e i graffiti, l’onirismo ad elementi di minaccia e inquietudine. Cenerentola è tutto questo.

Gli interni di un palazzo nobiliare settecentesco fanno da sfondo ad una storia fiabesca connotata da violenza. Il carattere buffo dei vari personaggi che si succedono sulla scena, tra cui spiccano Don Ramiro (Mazim Mironov), il patrigno Don Magnifico (Carlo Lepre), le sorellastre Clorinda (Rafaela Alburquerque) e Tisba (Sara Rocchi), Alidoro (Adrian Sampetrean) e il cameriere Dandini (Vito Priante) contrasta con le più disparate problematiche, soprattutto familiari.

Don Magnifico e le due sorellastre sono, nello stesso tempo, la famiglia e la rovina di Angelina-Cenerentola (ottima l’interpretazione di Teresa Iervolino). Quest’ultima è oggetto delle più diverse angherie. La sua colpa è chiaramente quella di essere figlia di un’altra madre. Viene trattata da Clorinda e Tisba come una serva che non merita la benché minima attenzione, come la più infima delle creature, come colei la cui unica aspirazione dovrebbe essere quella di spazzare la polvere.

La violenza domestica è esaltata più volte dalla regia. Molto forte è la scena in cui la stessa Cenerentola viene presa a calci e pugni dal patrigno e dalle sorellastre in un impeto di follia. Le percosse sulla povera fanciulla seguono il ritmo musicale. Laddove Rossini ha descritto un temporale, Emma Dante ha visto la prepotenza. Ad ogni tuono corrisponde un colpo.

Oltre che i soprusi domestici, Cenerentola deve sopportare anche l’invidia di un mondo che punta al matrimonio solo per conquistare prestigio sociale mai come coronamento dell’amore. La geniale intuizione di Emma Dante è quella di far trasparire la gelosia tra le tante donne pronte per essere maritate e colei che viene scelta dal principe. Alla festa da ballo, tutte le ragazze sono vestite di bianco in abito da sposa. L’unica in nero è la misteriosa donna velata che si rivelerà essere proprio Cenerentola: la sua bellezza stende tutti, il principe e le invitate. L’invidia di queste ultime nei confronti della prescelta è ben messa in scena con un insolito “fiabesco” suicidio corale. Le invitate tirano fuori pistole e fucili, puntandoli contro Cenerentola, il cui unico peccato è quello di essere troppo diversa da loro. In lei regna, difatti, soltanto dolcezza e bontà. Quando le tante donne acquisiscono la consapevolezza di essere state scartate dal principe puntano sorprendentemente le armi contro loro stesse per suicidarsi. La fine del primo tanto è tanto drammatica quanto commovente.

Un altro inedito elemento introdotto da Emma Dante nell’opera rossiniana è la presenza di tante bambole meccaniche con una chiave dietro la schiena, pronte ad essere caricate come un carillon. Cenerentola e il principe ne hanno tante vicino a loro. Le caricano per farsi aiutare e per non sentirsi mai soli. Come indica la regista nel programma di sala “La chiavetta nella schiena è emblema di bontà, di ascolto, di amore, di capacità di innamorarsi, ma è anche una punizione poiché è evidente che se sei una figura meccanica ad un certo punto ti scarichi. E se non c’è nessuno che ti ricarica sei finito”. Proprio sul finire del dramma, anche i personaggi cattivi, come il patrigno e le sorellastre, diventano meccanici. La loro gelosia, unita all’invidia e alla mancanza di amore, ha come unico inevitabile sbocco la solitudine. Il perdono concesso, nel finale, da Cenerentola rappresenta, per una minima parte, la vittoria dell’impunità e della cattiveria e, per altro prevalente verso, il trionfo della bontà sulla superbia.
Da segnalare la direzione del Stefano Montanari, ormai una garanzia. Il direttore riesce ad interpretare nel migliore dei modi, con perizia e sensibilità sopraffine, la partitura di Rossini. Un plauso, infine, va doverosamente all’Orchestra e al Coro del Teatro dell’Opera di Roma, sempre precisi ed impeccabili.