Emanuele, prima di percorrere la carriera solista hai militato in diverse band della Capitale. Quali sono le tue origini come musicista?
Partiamo dalle origini: fin da quando ero bambino mio padre mi faceva ascoltare i dischi dei grandi classici, i Beatles, i Led Zeppelin, Jethro Tull, Procol Harum, Lucio Battisti e soprattutto Frank Zappa… tutto quel rincorrersi di note e di melodie associate a strumenti originali e invenzioni continue non può non far breccia nel cuore di un bambino affascinato dal gioco e dal divertimento! A quell’età fortunatamente non si scelgono i propri beniamini musicali in base al look o alla popolarità come purtroppo accade per molti crescendo. A quindici anni poi sono entrato nel mio primo gruppo, gli Highlands (come bassista ovviamente, perché i posti da chitarrista erano tutti presi), poi nel 1998 negli Sweepers (abbiamo realizzato due album) negli Illuminati, The Foundation, Jai Division, Shit: Commercial Version, Simple Jacks… come bassista ho collaborato con Micecars, Carpacho, Methel and Lord.
Fino al 2007 molto raramente proponevo canzoni, perché non le ritenevo all’altezza. Le registravo per conto mio o con un amico su cassetta, ne avrò almeno venti da sessanta minuti piene zeppe di canzoni scritte tra il 1997 e il 2007. Tutt’ora ogni tanto attingo da quel grande archivio, e qualcosa viene riarrangiato. Il mio primo disco solista, UNCLE WEENIE GRAVY è del 2001, una specie di best-of di alcune delle mie cassette più sperimentali . MODERN CABINET TRANSITION FOLK del 2003 invece era un tentativo di registrare seriamente alcune delle mie canzoni più pop. Ma erano lavori autoprodotti ancora a nome Emanuele Sterbini. Il moniker Sterbus è arrivato solo nel 2004, quando un collega di lavoro cominciò a chiamarmi così! Il primo disco ufficiale di Sterbus è EVA ANGER del 2007. Seguirono CHI HA ORDINATO GLI SPINACI? (2009), IRANIAN DOOM (2011) SMASH THE SUN ALIGHT (2012), la raccolta di b-side, inediti e cover A WONDERFUL DISTRUST (2014) e all’inizio di quest’anno MODERN TALES OF RAZOR LEGS, raccolta del meglio degli album usciti a nome Sterbus più le cover di Tim Smith dei Cardiacs che non erano presenti su nessun altro cd. Questo album, insieme a REAL ESTATE / FAKE INVERNO è stato realizzato anche grazie al supporto della Zillion Watt Records, neonata etichetta di Civitavecchia con cui abbiamo cominciato a collaborare e con cui stiamo già cominciando a pensare al prossimo lavoro.

Stessa domanda per Dominique: quali sono le tue origini come musicista e le tue radici musicali?
Ho sempre avuto una grande passione per la musica alla quale mi sono avvicinata da bambina dapprima con una tastiera Casio, poi con il tanto vituperato flauto dolce durante le scuole medie, che a differenza della maggior parte dei miei coetanei ho sempre amato molto suonare. Tra l’altro è proprio grazie al mio entusiasmo per il flauto dolce che nel 2005 Emanuele e io abbiamo registrato un ironico mini-album strumentale (chitarra classica e flauto dolce) a nome FLUTING TODAY, che credo di poter annoverare tra le mie prime incisioni. A diciotto anni ho invece ricevuto in dono una chitarra classica, che ho imparato a suonare da autodidatta. Ho iniziato a studiare musica più seriamente solo nel 2014, con il clarinetto. Di pari passo fin dall’infanzia c’è sempre stato l’amore per il canto, coltivato in vari cori – tra i quali ricordo con particolare affetto quello del mio liceo – oltre che nei successivi progetti musicali.
Emanuele, come hai incontrato la tua partner (musicale e non solo) Dominique? In che modo secondo te ha contribuito allo sviluppo di Sterbus?
Dominique e io ci conosciamo dal 2004, c’è stata subito una grossa affinità musicale, lei aveva le sue canzoni e spesso l’accompagnavo alla seconda chitarra nelle sue serate. Contemporaneamente la chiamavo per venire a cantare sui miei dischi ogni volta che avevo bisogno di una bella voce femminile. Ha un buon orecchio musicale e l’istinto giusto per capire quando una cosa funziona oppure no. Ci completiamo a vicenda, perché lei riesce a vedere cose alle quali magari io non arrivo subito e viceversa, il che è sempre importante all’interno di un contesto musicale condiviso. Scrive ottimi testi, e in più suona il clarinetto e il flauto traverso!
È entrata ufficialmente negli Sterbus nel 2013, quando sono stato invitato a suonare a Londra per un benefit a favore di Tim Smith, il leader dei Cardiacs. Un’altra cosa importante che abbiamo fatto insieme, e che ci ha aiutato a mettere a fuoco il modo in cui volevamo progettare
REAL ESTATE / FAKE INVERNO, è stata il corso “Impara a nuotare” con Filippo Gatti, un workshop sull’arte di scrivere canzoni che abbiamo seguito durante il 2017, che ha portato anche alla realizzazione di un brano in italiano, “Metro”, con Motta alle percussioni.
Dominique, come hai incontrato Emanuele? È stato amore a prima vista?
Il primo incontro risale al 2004, ci siamo conosciuti tramite amicizie comuni e ci siamo sempre frequentati come amici. L’amore è arrivato in tempi più recenti, con il consolidarsi della collaborazione musicale.
Ascolto spesso REAL ESTATE / FAKE INVERNO che trovo geniale: molto ben concepito, suonato, arrangiato e registrato. Sicuramente un album, anzi due, di grande maturità espressiva rispetto ai precedenti episodi discografici. Quali sono le tue impressioni su questo percorso artistico?
Sicuramente REAL ESTATE / FAKE INVERNO è stato il primo album in cui non ci sono state limitazioni di nessun tipo, abbiamo avuto modo di pensare con calma a quali pezzi scegliere, come arrangiarli, a scrivere le varie parti, a chiamare i vari ospiti. Nel disco ci sono clarinetto, clarinetto basso, tromba, alto sax, arpa celtica, sitar, glockenspiel, tutti strumenti veri, non ci siamo piegati alla facilità che avremmo usato utilizzando dei semplici suoni midi, per quanto più verosimili possibile potessero essere. In passato tutti gli album erano suonati praticamente solo da me, usando GarageBand dove potevo programmare anche la batteria.
Nella vostra musica – prescindendo dall’esplicito amore per i Cardiacs – per l’ascoltatore attento non è difficile scorgere echi di Canterbury, delle band inglesi degli Ottanta e dei Novanta, dei King Crimson, di Frank Zappa, degli XTC e non solo…
Sono sempre stato un avido consumatore di musica, quando qualcosa mi piace voglio ascoltare tutti i dischi e cercare di carpire i segreti del songwriting. Wilco, Blur, Pavement, Grandaddy, Husker Du, King Crimson, Mojave 3, The New Pornographers, Low, Beck, Midlake, Flaming Lips, Pixies, Robert Wyatt, Steven Wilson, Radiohead, Elliott Smith: è tutta gente che mi emoziona e che ha scritto cose bellissime. Tuttavia da domani potrei elencare altre cento band diverse da queste.
In REAL ESTATE / FAKE INVERNO, oltre a una pletora di ottime collaborazioni, c’è la grande partecipazione di Bob Leith, il batterista dei Cardiacs! Emanuele, come è nata la tua partecipazione alla grande famiglia dell’originale band inglese?
Ho scoperto i Cardiacs nel 2006, è stata un’illuminazione: finalmente avevo trovato il gruppo perfetto! Le complessità e il divertimento zappiani uniti alla velocità e al volume delle band anni ’90. Ho comprato tutti i dischi, sono andato a sentirli dal vivo a Londra. Poi nel 2010 feci la cover di “Dirty Boy”, un loro brano che è una lunga cavalcata epica elettrica, che però abbiamo riarrangiato suonandola acustica, solo con la voce mia e di Dominique e il sax del nostro amico Lucio Vaccaro a sostituire le parti di chitarra solista. Il brano è piaciuto nel giro dei Cardiacs ed è stato anche inserito in THE LEADER OF THE STARRY SKIES, tributo a Tim Smith uscito nel 2010. Così il nome ha cominciato a girare un po’ in quell’ambiente (complice anche la mia assidua frequentazione del forum ufficiale della band) fino a quando nel 2013 – un anno dopo l’uscita di SMASH THE SUN ALIGHT, mini-EP esplicitamente dedicato e ispirato ai Cardiacs – sono stato invitato a partecipare ad un loro benefit a Londra. Quel giorno incontrai Bob Leith, batterista dei Cardiacs, che all’epoca era già un eroe per me, gli chiesi un po’ per scherzo se un giorno avrebbe voluto collaborare con me, e lui disse “certo!”. Chi l’avrebbe detto che cinque anni dopo sarei riuscito a convincerlo? Nel frattempo abbiamo partecipato ad altri concerti per Tim Smith anche nel 2015, 2016 e quest’anno, sempre in Inghilterra. L’anno scorso con Dominique abbiamo avuto quest’idea pazza di mandare dei demo a Bob e di chiedergli quando avesse una finestra di tempo libera per venire a Roma in studio a registrare, e così a ottobre del 2017 è venuto la prima volta. Avrebbe dovuto suonare su tre brani e alla fine ha suonato su cinque. A quel punto abbiamo fissato un’altra sessione per febbraio: Bob è tornato e ha registrato altri dodici brani. Una velocità e professionalità uniche. Praticamente tutti i brani erano “buona la prima”. È stato lì che abbiamo deciso che avremmo realizzato un disco doppio. Avevamo diciassette brani.

Emanuele, sei sicuramente un compositore molto prolifico: come nascono i pezzi di Sterbus?
Prendo in mano la chitarra acustica e comincio a provare qualche accordo, appena vedo che il giro suona bene ci provo delle melodie (in inglese maccheronico) che poi Dominique riesce a tradurre in parole vere. I suoni che escono spontaneamente quando improvviso le melodie sono fondamentali, credo siano quelle che il mio istinto ritiene le migliori da un punto di vista strettamente musicale. Altre volte invece mi viene in mente una melodia particolare, me la segno (magari sul telefono) e successivamente trovo i giusti accordi… Le idee più strane o le più immediate sono spesso nate così.
Dominique scrivi prima i testi o li scrivi sulle musiche composte da Emanuele?
In genere scrivo i testi successivamente, cercando parole o frasi assonanti con quelle inventate da Emanuele nei demo in finto inglese. A volte la scrittura è immediata e perfettamente aderente al contesto musicale, altre volte può servire un tempo di ricerca maggiore per trovare la giusta chiave d’ispirazione. Se da una parte lavorare su una griglia predefinita può sembrare limitante, dall’altra si rivela spesso stimolante. Il limite diventa sfida e il risultato ancora più soddisfacente.
Emanuele nasci bassista ma suoni molto bene anche la chitarra: hai avuto un’educazione formale o sei uno splendido autodidatta?
Mio padre Aldo suonava (e suona ancora!) la chitarra, per cui anche a casa avevo sempre nelle orecchie il suono della chitarra acustica, e cominciavo a capire quali cambi di accordi mi piacevano. A tredici anni imparai anch’io a suonare la chitarra – grazie a “Don’t Pass Me By” dei Beatles, il brano di Ringo Starr sul WHITE ALBUM, era la canzone con meno accordi – e andavo dietro a mio padre improvvisando, quasi tutti i giorni, a volte per ore! Non ho mai imparato a leggere e a scrivere la musica, ma sicuramente suonare a casa è stata una grande palestra per affinare l’orecchio musicale… Come i piloti d’aereo, è stato sicuramente in quegli anni che ho accumulato le mie migliaia di ore di pratica sul campo.

Dominique, la tua formazione musicale sembra improntata agli studi classici visti gli strumenti che suoni come il clarinetto e il flauto. Hai studiato anche altri strumenti?
Non ancora! Mi piacerebbe estendere gli studi ad altri strumenti a fiato, sicuramente all’ottavino e magari anche al sax, per l’oboe e il didgeridoo c’è tempo! Ogni tanto mi cimento con ocarina, thin whistle, xaphoon, quena e siku, ma solo per diletto. Anche il nose flute è parecchio divertente! Scherzi a parte, per il momento sento ancora il bisogno di approfondire il clarinetto e il flauto traverso, che studio rispettivamente da quattro e due anni.
Emanuele, quali sono i tuoi bassisti di riferimento? E i tuoi chitarristi di riferimento?
Bella domanda! Sicuramente i primi che ho ascoltato sono stati John Paul Jones dei Led Zeppelin oltre che Paul McCartney nei Beatles, le loro frasi melodiche mi colpivano già da adolescente. Anche “Stand Up” dei Jethro Tull è una lezione di basso rock dall’inizio alla fine. Colin Moulding degli Xtc è un altro dei grandi, forse sottovalutato. Ovviamente John Entwistle degli Who. Mick Quinn dei Supergrass è un altro grande del basso. Colin Greenwood dei Radiohead, il lavoro di basso di Jon Poole su “Sing to God” dei Cardiacs è geniale, così come le invenzioni di Scott Thunes, secondo me il migliore dei bassisti che hanno suonato con Frank Zappa. In Italia Morgan è un grande bassista, non a caso Battiato l’ha voluto spesso nei suoi dischi.
Tra i chitarristi sicuramente Johnny Marr e Graham Coxon sono due che hanno saputo dare un ruolo fondamentale al concetto di chitarra ritmica, così come Nels Cline dei Wilco… Come chitarristi solisti mi piacciono ovviamente Zappa, Allan Holdsworth, Robert Fripp, ma in generale non sono un fan dell’assolo di chitarra in sé per sé, ogni volta mi ritrovo a perdermi nel seguire quello che fanno basso e batteria durante gli assoli! Se poi i batteristi sono tre, e il bassista è Tony Levin, come nel concerto dei King Crimson che abbiamo visto a luglio, la “distrazione” è tripla!
Dominique, i tuoi flautisti preferiti?
Non partendo da una formazione classica e essendomi avvicinata allo studio dello strumento in un periodo relativamente recente il mio principale riferimento è il mio Maestro di flauto traverso Andrea Salvi che abbiamo avuto ospite anche sul disco su Home Planet Gone. Sicuramente in ambito rock sono fonte d’ispirazione sia Ian Anderson (“Bourée è uno dei primi brani che ho studiato) che Peter Gabriel. Apprezzo molto anche polistrumentisti quali Ian McDonald e Mel Collins dei King Crimson, James Senese, Nicola Baigent ed Enrico Gabrielli.
Nei testi di REAL ESTATE / FAKE INVERNO, a partire dal titolo, c’è il dichiarato amore per i doppi sensi, per i giochi di parole, per i giochi fonetici misti italiano/inglese e tanto altro: hai una passione speciale per la linguistica o si tratta di un orecchio musicale molto sviluppato per le assonanze?
Emanuele: fin da piccolo ho sempre avuto una passione particolare per i giochi di parole. Avevo 9 anni e già Nino Frassica mi faceva ridere, così come Bergonzoni, o le invenzioni surreali di Jacovitti, Marcello Marchesi, Flaiano. Essendo poi un ragazzo fondamentalmente timido, mi è sempre piaciuto il poter dire tutto in tre parole anziché usandone per forza mille dando sfoggio di chissà che. Prima ancora di cominciare a scrivere canzoni scrivevo piccoli raccontini e storielle, e spesso mi annotavo giochi di parole che speravo mi potessero tornare utili un giorno! “Prepuberalles”, “Prosopopeye”, “Prog-à-portèr” sono tutti diventati titoli di brani. “Wooden Spheres + Heartquakes”, brano del 2012, aveva il testo ispirato ai titoli dei brani del Commercial Album dei Residents. “Song for Elliott”, del 2009, metteva in riga 38 titoli di canzoni dei Beatles come lyrics, però mantenendo completamente il senso e la sintassi. Nel caso specifico di “Real Estate/Fake Inverno” però, il titolo ci è stato suggerito da un amico comune, Francesco Chini, un altro appassionato di parole. Anche i titoli delle canzoni “Emy’s Fears” (Hemispheres) e “In this grace” (In Disgrace) nascono da queste piccole intuizioni linguistiche.
Dominique: condivido con Emanuele il gusto per i giochi di parole, che rimane uno dei nostri passatempi preferiti. Inserire questo tipo di divertissement nei nostri testi è stata una spontanea conseguenza dell’ironia e della giocosità musicale espresse da Emanuele.
Per concludere, diteci qualcosa di (in)sensato alla maniera di Sterbus…
Un paio di gambe dev’essere abbastanza lungo da arrivare al busto o d’arrivare a terra?
Siamo quelli che rovesciano la minestra o quelli a cui la minestra viene rovesciata addosso?
Dove vanno a finire i palloncini invenduti?
REAL ESTATE/FAKE INVERNO è disponibile su Bandcamp