Odio è un sostantivo maschile singolare. Quando diventa plurale, si diffonde con un effetto domino, ed è Guerra. L’insulto, del regista Ziad Doueiri, racconta come nasce l’odio ma soprattutto le emozioni represse che sono alla base dei conflitti.
Nel film, premiato a Venezia, cresce l’ostilità e la reciproca diffidenza tra Yasser, un profugo palestinese e Toni, militante nella destra cristiana, sullo sfondo di un Libano dilaniato. Tutto parte da un tubo che perde, dalla richiesta di scuse che non arrivano e che attivano reciproche aggressioni fisiche e verbali. Un crescendo che nasconde traumi e dolori che diventano macigni perché non sono stati elaborati. Si arriva a un processo, a una prima sentenza e poi a un ricorso in appello.
L’insulto aiuta lo spettatore a cercare di capire a trovare le ragioni dell’odio senza cadere nel moralismo o nella tentazione di schierarsi. Uno dei due avvocati dice che “Nessuno ha il monopolio della sofferenza,” e il Presidente convoca i due contendenti e li invita a “non restare legati al Passato”.
Le figure femminili si oppongono alla logica di un rancore che distrugge ogni cosa. Le mogli dei due protagonisti, ma anche un’avvocata e una giudice, cercano di arrestare la spirale dell’odio che trascina con sé amici e parenti, creando schieramenti contrapposti.
Il film esce dalla narrazione di un conflitto interminabile e diventa una metafora di quel sottile e quotidiano calpestare le differenze, che, a lungo andare, porta a esplosioni incontrollate di intolleranza.