Eve Ensler non scrive con la penna. Sono le sue viscere a parlare. Senza alcun filtro. Nel corpo del mondo – La mia malattia e il dolore delle donne che ho incontrato (Il Saggiatore), non ci offre la prosa colta delle persone che scrivono saggi o romanzi sulla Malattia del secolo. Non interpreta, non lascia spazio alle teorie. Lei si cala all’interno delle sue cellule impazzite. Dopo I monologhi della vagina, chi la legge sa cosa aspettarsi : un lungo, inquietante monologo sul Nemico silenzioso e implacabile che stravolge la vita di donne e uomini. Sempre più spesso.
Non si può dire quanto si tratti di buona o cattiva letteratura. E’ come calarsi dentro di sè, con l’aiuto di una piccola telecamera. Al lettore arrivano immagini forti, a volte incomprensibili, eccessive. Ma solo per chi non abbia avuto un tumore o non abbia conosciuto il dolore di chi lo ha vinto o subìto.
Non fa pause, Eve. Lascia che tutto precipiti e sul lettore attonito si rovesciano liquidi organici, dubbi, cannule, sacchetti, dolori, sussurri, ma più spesso grida.
Eve non vuole raccontarci il suo tumore, attaccarsi a qualche interpretazione psicologica, commuoverci ma senza turbarci troppo. No, Eve cerca lettori e lettrici dallo stomaco forte. Che sappiano stare in sala d’attesa, ma poi correre nella sua stanza a seguire l’incredibile e sconcertante orrore del suo corpo che si sgretola. Una cronaca fedele, minuto per minuto. Non accetta che ci si allontani per prendere fiato. E’ la sua vita, ma è anche la vita di milioni di persone, spesso donne, che vivono l’abisso di questa malattia innominabile.
Non solo, ma riesce, lucidamente, a paragonare quello che sta succedendo nel suo corpo alla catastrofe di un mondo ferito e inquinato, quello in cui tutti viviamo. Il tumore è una malattia sporca, in linea con la nostra vita. « Passiamo i nostri giorni, la maggior parte di noi consciamente o inconsciamente, a farci fuori. Pensiamo, per esempio, alle centrali nucleari costruite su una faglia vicino all’acqua. Pensiamo all’avvelenamento della Terra che ci nutre, all’aria che ci permette di respirare. Pensiamo al fumo, alle droghe ».
Eve, a un certo punto, cede e dichiara di voler essere paziente. Ma è solo un momento. Continuerà a ribellarsi a medici e chirurghi ottusi e disumani, che le frugano dentro e la lasciano senza alcuna certezza, in balìa di decisioni impossibili da prendere. « Mi scaglio contro l’oncologo distratto, il radiologo scaricabarile, il chirurgo rockstar, il dottorucolo sadico in ritardo per la cena, i lividi sulle braccia causati da amareggiate infermiere oberate e sottopagate ».
E poi le domande senza risposte, che si pone ogni persona a cui viene proposta, come da protocollo, una chemioterapia.« Come potrà la chemio cancellare ogni singola cellula cattiva senza annientare tutte le cellule? E se distrugge ogni cellula, come potro io restare in vita? ».Il dolore è condiviso da silenzi interminabili, a volte necessari, a volte insopportabili. C’è il silenzio di un’amica che sa ascoltare, c’è anche quello del medico che non sa cosa dire, dei pazienti che attendono che i veleni facciano il loro effetto, come bombe intelligenti.
Eve esplora la possibilità di trasformare il suo cancro in un’esperienza creativa, senza essere sfiorata dal fascino del Male che, una volta attraversato, ci rende più buoni, più consapevoli. Propone invece un cambiamento personale e politico, di tutti noi, sani e malati.« Se il cancro, proprio come un cuore spezzato, un nuovo lavoro o la scuola, fosse un maestro? Se invece di essere emarginati e definiti per categorie terminali, fossimo identificati come individui nel mezzo di una trasformazione che potrebbe dare piu profondita alla nostra anima, aprire il cuore e allo stesso tempo – anche se, e anzi in particolare se muori – essere sostenuto dalla comunita facendone anche parte? »
Poi l’arte, quella che da senso e forma, che colora la speranza .« Le persone che mi venivano a trovare provavano imbarazzo. Cosa potevano dire? Gli chiedevo subito di disegnare o dipingere qualcosa con me. Funzionava come un incantesimo. L’idea di dipingere un po’li traumatizzava perfino piu del mio cancro. Ho scoperto di non essere stata l’unica umiliata alle elementari durante l’ora di educazione artistica e tecnica. Cominciavano con riluttanza e terrore, ma poi ci prendevano gusto. Ho iniziato ad amare questo nuovo tipo di comunicazione.I miei amici si sedevano al mio fianco e creavamo insieme”.
Il calore dell’affetto, l’amicizia e una sorella ritrovata. Rada : “E’ cosi che si é stretta la nostra amicizia: due donne che provavano a comprendere la guerra. Due donne che provavano ad amare le donne che soffrivano”. “La presenza di Lu, la sua semplice presenza materna-fraterna dalla pelle morbida, era una cura. Io e mia sorella su un’isola chiamata Manhattan, con il mio corpo in fiamme, invaso dalla nausea, ci siamo innamorate. E l’unico modo per descriverlo. Abbiamo trovato un’altra meta per la nostra devozione, non in alto, verso un padre impossibile, ne fuori, verso una madre irraggiungibile, ma attraverso, l’una incontro all’altra”.
Eve, cercando “la verità del Mondo”, incontra una nuova forma di amore, inaspettata. “Questo è il mio modo d’amare. Non so dove mi potra condurre. Quello che so e che quando sono con le donne del Congo, di Bukavu, di Shabunda, di Bunyakiri, di Goma, conosco l’amore. Amo Jeanne,Alfonsine, Alisa, amo Christine e il dottor Mukwege. Amo le donne di Essence Road che camminano con sacchi da novanta chili legati alla fronte. Amo le donne che vendono pesce e carbone in strada e si vestono con tuniche inamidate, cosi colorate da far risvegliare il mattino. Amo come si muovono, come gridano e come piangono di dolore. Questo e il grande amore, l’amore supremo. Non ha niente a che vedere con il matrimonio, il possesso, l’avere o il consumare”.
L’autrice ci racconta la forza della sua lotta. “Attraverso la diffusione di saperi e formazione, la rete di donne leader congolesi si estenderà e le Citta della Gioia nasceranno ovunque. Ci sarà gioia qui. Gioia: felicita, leggerezza, piacere, felicita, estasi.La Città della Gioia è un luogo, ma è anche un concetto. È cresciuta dalle donne del Congo e ha preso la forma dei loro desideri e bisogni. È stata letteralmente costruita dalle loro mani. È un santuario di guarigione; è un centro di rivoluzione”. E anche allo stremo delle forze, continua a chiamare Mama C, belga e congolese, per attaccarsi alla realtà , ai suoi ideali, come un naufrago che non vuole annegare. E lasciare sole le donne che, come lei, hanno sofferto.
La storia di Eve: gli abusi in famiglia, l’ascolto delle storie di tante donne bosniache trattate come schiave. Un tumore che accomuna la sua vita a quella di sua madre. E la scoperta di una forza impensata, trovata dentro di sé ma anche nell’affetto delle persone che, come lei, si sentono in una grande Rete solidale. Con il “bisogno di trovare quell’invisibile storia sotterranea che connette tutto”.